L'altra sera mi è capitato di leggere questo pezzo, "Mather, writer, monster, maid" di Rufi Thorpe sulla meternità e alcuni dei suoi aspetti meno idialliaci e pastello.
L'articolo si sofferma sull'inconciliabilità di essere madre e scrittrice, o, più in generale, di essere madre e artista.
L'articolo è interessante, ha un sacco di riferimenti ad altre scrittrici e madri, e ad altri saggi sull'argomento, ne consiglio davvero la lettura, e non solo alle madri, anzi.
Non che io mi senta né artista, né tanto meno scrittrice, ma madre, a volte, nell'ultimo periodo, sì, così volevo dire la mia su di un punto toccato dall'articolo, magari non il più importante, ma che mi ha colpito perché mi ha immediatamente scatenato un "non è vero".
Ho
trovato detto che il mestiere di artista è fondamentalmente
inconciliabile con quello di madre, in quanto un'artista, per essere efficace, deve mettere a disagio, far
crollare certezze, mettere in discussione tutto e tutti, mentre una
madre, per essere una buona madre, non deve far altro che rassicurare,
proteggere, e costruire roccaforti di certezze intorno alla sua nuova
creatura.
Sono mamma da solo otto mesi, ma mi sento di dissentire.
Sul primo punto, sul ruolo dell'artista, quello di mettere a disagio è sicuramente uno dei tanti ruoli possibili. Ce ne sono anche altri, a mio parere: quello di far riflettere, di far arrabbiare, di lasciare a bocca aperta, di far ridere, o di far sognare, di far ricordare. Ce ne sono poi sicuramente molti altri, e più me ne vengono in mente, più mi sembra che una madre faccia questo e nient'altro, ogni giorno, da quando al mattino prende su il suo fagottino dal lettino a quando ce lo rimette, troppo stanco per addormentarsi, lui, la sera.
Sul secondo punto, non credo che una madre debba solo rassicurare e costruire certezze intorno al suo bimbo.
Da quando c'è T. in giro, tutte le mie certezze sono crollate. Ogni giorno si ricomincia daccapo: mi scopro più paziente di quanto pensassi, meno fantasiosa di quanto credessi, mi scopro felice di passeggiare in città, al mattino, di allattare di notte, più insicura, meno triste, più fiduciosa, meno rigida di quanto mi ritenessi.
Poi, il giorno dopo, è tutto il contrario, e il giorno successivo, si ricomincia.
T. è sempre diverso, ogni giorno un uomo più definito.
Ogni giorno imparo a conoscerlo, e a conoscere me come non facevo da tempo.
Non attraverso i suoi occhi, enormi e spalancati, ma attraverso quattro paia di occhi, i miei e i suoi insieme, mischiando ricordi a stupore, storie lette un milione di volte a entusiasmo e scoperta, futuri, esperienze, sogni, giochi e doveri.
Anche questo, per ora, è la maternità.
Nessuna certezza, T. me le ha tolte tutte, ma una serie infinita di tentativi, perché dobbiamo reinventare un mondo che credevo di conoscere, e per farlo le mie certezze ci sarebbero solo di intralcio. Ci servono idee nuove.
Nessuna certezza, quindi, ma materiale interminabile per creazioni e narrazioni, eccentriche e originali, lunghe una vita.
Alla fine della giornata, il problema a tradurre in arte tutti gli stimoli che la maternità ti offre, è sicuramente, come detto anche nell'articolo in questione, il tempo e lo spazio per farlo.
Ma la cosa è meramente pratica, e non mi sembra che un minuscolo dettaglio.
Poche cose scombussolano tutto come creare un uomo, con tutti i suoi dettagli e le sue sfumature, e per farlo, non si può che accettare di mettere in discussione tutto, di spazzare via tutte le certezze, e essere pronte a riceverne una nuova ogni giorno, o per lo meno di qui ai prossimi 18 anni.
A mio parere (non richiesto), quindi, nessun conflitto tra lo stupore e la freschezza di un'artista, e lo stupore e la freschezza di una mamma.
Entrambe offrono al mondo i loro occhi rinnovati, e per forza di cose, con i loro gesti, quel mondo, un pochino lo cambiano.
Anna, grazie per questo post.
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