Nonostante la bellissima parola, "equipollenza", il concetto mi ha fatto letteralmente andare fuori dai gangheri, altro che minuscolo dramma.
Capita che io sia in cerca di un lavoro, e che sia di "larghe vedute" - o disperata, fate voi -, e che cerchi un po' ovunque, anche in patria.
Ed ecco aprirsi una buona possibilità, addirittura all'Università di Venezia!, per un posto da coordinatore/coordinatrice di progetti internazionali su tematiche ambientali/clima: perfetto. È fatta, farò domanda, penso ingenuamente. Vogliono un dottorato in materie inerenti, conoscenza inglese, cose così, ci siamo.
Comincio la domanda online sul sito dell'Università, e sembra tutto così facile, finché non mi imbatto nell'equipollenza.
Equipollenza del dottorato.
Mmmm.
"Se avete conseguito un dottorato all'estero, ci vuole l'equipollenza."
Boh, ma io ho conseguito il dottorato in Europa, in seno alla grande famiglia Europea in uno dei paesi più acclamati e invidiati - L'Ollandia!, vuoi che mi chiedano l'equipollenza, per di più per un posto da coordinatore internazionale? forse sarà per le Università extra-europee, penso ingenuamente. Scrivo alla segretaria che ci deve essere un errore, mi si risponde assolutamente no, si deve fare l'equipollenza.
E va bene, penso ingenuamente, faremo l'equipollenza. Dopo tutto, al mio congedo, la magnifica e prestigiosa e la "facciamo come" Università di Utrecht mi ha spedito a casa con tre bei documenti attestanti il mio dottorato: in Olandese, in Inglese, e pure in Latino. Non sarà difficile dimostrare il mio dottorato a una commissione italiana, mal che vada posso passare per il Vaticano e il suo amore per le lingue morte, no?
No.
Vi risparmio i dettagli, sottolineando solo alcuni fra i certificati più bizzarri, oltre alla solita modulistica varia e banali copie di documenti di identità, richiesti per la procedura di equipollenza (fonte ministeriale qui):
- copia autentica del titolo di studio estero tradotto e legalizzato, con allegata dichiarazione di valore;
Dove per "tradotto" si intende "tradotto in Italiano" da un traduttore ufficiale (a pagamento), o dall'ambasciata olandese in Italia, o dall'ambasciata italiana in Olanda.
Facile, per uno che vive in Svizzera.
Ah, e dove "legalizzato" si intende, boh, credo sia un timbro, ma in ogni caso bisogna farlo "prima che venga richiesto alla competente autorità
diplomatica italiana di emettere, sul titolo stesso, la Dichiarazione di
valore in loco".
Mah.
Ma tranquilli, non si deve legalizzare, ma solo "apporre una postilla" (= semplicemente un altro tipo di timbro, ma si capisce solo alcuni paragrafi più tardi) in caso il paese rilasciante abbia firmato la mitica "Convenzione dell'Aia del 5 ottobre 1961".
Ottimo, penso io. La convenzione dell'Aia, l'avrà firmata l'Olanda, no?
Almeno questa sì, l'ha firmata, ma non avendo firmato la Convenzione Europea di Bruxelles del 1965, tutta la procedura è comunque a pagamento.
Resto basita.
La dichiarazione di valore, invece, è "comodamente" rilasciata dall'ambasciata italiana in Olanda. Sempre facilissima da ottenere, per chi come me abita in un terzo paese.
- copia autentica tradotta e legalizzata, con allegata dichiarazione di
valore, del piano degli studi compiuti, esami superati e relativa
votazione; tale certificazione deve essere rilasciata dall'Università.
Mi fa piacere, ma non so se si sono accorti che non in tutti i paesi, anzi, nella stragrande maggioranza dei paesi, europei e non, durante il dottorato NON si fanno esami, NON si ha un piano di studi, ma si fa SOLO ricerca.
E a volte, udite udite, non c'è nemmeno un'Università di mezzo, ma solo un istituto di ricerca.
Idem come sopra, poi, per traduzioni e legalizzazioni.
Ecco.
Come potete ben immaginare, la domanda per quel posto non sono riuscita a farla, e, come me, immagino molti altri, che ormai vivono altrove, scappando di contratto in contratto da un paese all'altro.
Penso ai vantaggi dell'Europa, che almeno - almeno - avrebbe dovuto facilitare questo tipo di cose.
Penso al mio portafoglio grande e pesante, perché qui in Svizzera, fuori dall'Europa, devo portarmi in giro un vistoso permesso di soggiorno.
Ma l'equipollenza del mio dottorato non me l'ha chiesta nessuno, e si rivolgono a me come "dottoressa".
E allora oggi, purtroppo, preferisco la mia borsetta un po' più pesante all'equipollenza, nonostante il suo suono melodioso e un po' fiabesco.
Narrano le leggende che per la traduzione sia sufficiente farsela da soli a casa e poi validarla in questura (!) con un testimone (!) che si assuma la responsabilita` di dire che la traduzione e` fedele. In pratica, si sostituisce il traduttore ufficiale con la parola data da due persone. Che poi, se hai dichiarato il falso, siete perseguibili penalmente per falso in atto pubblico. Ma vuoi mettere la comodita`?
RispondiEliminaGrazie per aver condiviso questa storia, mi ha permesso di "ventilare alcune lamentele", ed ero felice di scoprire che non sono l'unico infastidito da questo. Sono un olandese che già lavora in un'università italiana come assistente di ricerca. Al momento faccio alcune candidature per posti di RTD presso altre università in Italia; e mi chiedono sempre questo dannato documento. È davvero un dolore e mi sembra totalmente fuori dal mondo del 2020, soprattutto - come hai detto tu - quando hai un dottorato di ricerca in una nota università dell'UE ... non so esattamente perché questa specifica burocrazia ridicola esiste, ma è un ottimo modo almeno per scoraggiare scienziati stranieri di talento a starne alla larga ;-)
RispondiEliminaImmagino poi che dal tuo punto di vista tutto questo sia ancora più difficile da comprendere, e da accettare. Che dire? Coraggio! e complimenti per il tuo italiano :-)
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