07 dicembre 2016

Il velo.

Dicembre, ho ago e filo ancora in mano, spilli, un metro, e del velo bianco e leggero da sistemare. Un déjà vu lungo due anni.
Cucivo il mio vestito da sposa, gonna corta e strascico lungo, da indossare con un sorriso, insieme alle farfalle che volavano nel mio cuore.
Ora cucio le piccole tende bianche della nostra nuova cucina, nel nostro nuovo appartamento, nella nostra nuova città, nel nostro nuovo Paese.
Siamo in tre, adesso, ad affaccendarci in questa cucina: chi a cucinare, chi a mangiare, chi a sporcare in modi impensabili gli angoli più inaccessibili di questa stanza, o di se stesso. Chi a pulire, chi a cantare, chi a ridere e chi a imparare a bere da una tazza, chi a innamorarsi del sapore del Gruyère, chi a perseverare nell'odiarlo. Chi a rovesciare l'acqua per l'ennesima volta, chi a stupirsi anche oggi di quella magia chiamata radio, chi ad asciugare con uno straccio l'asciugabile, chi a guardare rassegnato un bimbo che sarebbe da mettere così com'è in lavatrice, se solo la lavanderia non fosse in cantina, e il nostro turno non fosse fra sei giorni.
Così, un velo bianco che ci separi dalla strada è necessario, per non fare entrare dentro troppo fuori, troppa confusione, che ci sono già abbastanza cose qui.
Basta un vedo-non-vedo però, perché curiosi si nasce, si cresce, e ci si coltiva, e un occhio sulla strada bisogna sempre averlo, per imparare dove va, per scoprire cose nuove, e per incontrare qualcuno, che poi, chissà.
Per riuscire a stare fra di noi senza troppe distrazioni, ma essere pronti a tutto ciò che la strada porta con sé.
In fondo, penso fosse questo il senso anche del mio velo da sposa.




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