18 dicembre 2017

Orfana d'Accademia

Orfana d'Accademia, a volte mi ritrovo a pensare - com'è ovvio - di aver fatto la scelta sbagliata. Orfana d'Accademia, alla mia scrivania, ascolto gli altri schiacciare sui tasti dita d'impiegato. Ascolto la mia autonomia scivolare via.
Ascolto l'apparato di conoscenza che avevo costruito sgretolarsi, giorno dopo giorno, ora dopo ora, cadere nel vuoto, nel buio, tanto: non serve più.
Mi ascolto cercare di convincermi che in questi anni passati ho imparato anche un metodo, un approccio, un'attitudine, e queste cose le porterò sempre con me.
Mi affanno a pensare a cosa mi serva, quest'approccio, in questo nuovo lavoro.
 
Mi ascolto cercare di elencare quale sia, poi, questo sapere che si sta sgretolando.
Mi ascolto esitare, e, per la vergogna, sudare.
In fondo, è un conforto sapere che non mi verrà più richiesto di sapere nulla di quell'insieme di cose che avrei dovuto sapere.
Tutto è sparito in un lampo, alla firma del primo contratto fuori dall'Accademia.
Cercavo tutto questo, ma ora mi ritrovo orfana di quel sentimento di inadeguatezza che è stato mio fedele compagno per lunghi anni.

A volte, invece, penso che non è l'autonomia, a scivolare via, ma la solitudine, l'isolamento.
Che le persone mi vengono a cercare, perché so l'Oceanografia, e mi chiedono cose a riguardo alle quali so rispondere. 
Che va bene cercare di dimenticare i dettagli, ma la logica e il mare ormai fanno parte di me, e li porto ovunque, spando acqua salata e  rigore, e alcuni - non tutti, e guai se non fosse così! - lo apprezzano.
Penso che lavoro in una lingua straniera, tutti i giorni, scrivo, parlo, e non faccio più fatica.
Che lavoro con delle persone, lavoriamo insieme, e facciamo delle cose insieme, più grandi di noi.
Penso che prima, quello che facevo, l'hanno letto forse in 20, capito in 10, apprezzato in 4. 
Adesso è diverso, e mi fa respirare meglio.
E nessuno può giudicarmi per quello che io giudico importante, nessuno.

Penso che alle 17 esco dall'ufficio contenta, con la voglia di continuare l'indomani quello che ho interrotto, e l'ho interrotto perché nessuno si aspetta che io faccia più delle mie 8 ore fatte bene.
Penso che non mi è mai capitato di tornare a casa piangendo, da quando sono fuori dall'Accademia.

Esco dall'ufficio, spengo il computer e il lavoro, e accendo la "mamma", vado a prendere T. all'asilo, e sono con lui e basta, senza equazioni irrisolte, senza cose di cui dovrei avere il controllo fuori controllo.
E sono con Subirotamic, senza drammi e paturnie, ma con quattro risate.
Ho il tempo e le energie e la voglia di coltivare il mio nuovo villaggio, che è fatto incredibilmente di persone che pensano di restare dove sono. Poi la vita - chissà, ma qui ho trovato persone che non vivono nel mito di dover, in qualche modo, un giorno, tornare a "casa". Non vivono con la valigia in mano, perché dopo un discreto girovagare, hanno accettato che a questo punto della vita, "casa" è dove si è adesso, e può quindi essere anche qua, ovunque qua sia, e han messo su figli, famiglia, messo giù radici.
E questo aiuta anche me a trovare un equilibrio.
Ma richiede tempo, energie, appunto, e voglia.
E l'essere fuori dall'Accademia mi dà il lusso di avere tutto questo.
Di non essere sempre in gara con l'infinito.
Di aver tempo per giocare anche ad altro.

E oggi, in questo momento della vita, in questo luogo del Mondo, in questa situazione astrale di minuscola famiglia per lo più solitaria, penso non ci potrebbe essere soluzione migliore.

E sorrido, a bordo lago.
Orfana d'Accademia, non posso scrollarmi di dosso la mia vecchia pelle, e non voglio neanche farlo.
Magari un giorno ci ritorno, chissà.
Non me ne sono poi mica andata così lontana.
Ma per il momento, va bene così.

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